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La fatica di credere nel futuro

La fatica di credere nel futuro

Scienziati rifugiati ospiti del workshop della TWAS raccontano la loro odissea, condividendo con i partecipanti le difficoltà incontrate e pensando al momento in cui potranno far ritorno a casa.

"Sono orgogliosa di essere yemenita e non mi interessa ottenere un'altra cittadinanza. Se sapessi che per tornare a casa devo fare la strada a piedi, lo farei senza pensarci due volte".

Così ha esordito Eqbal Dauqan - rifugiata yemenita, professore associato di chimica e tecnologie alimentari, rifugiata in Malesia e li' ancora per pochi mesi - all'apertura della tavola rotonda che ha caratterizzato la seconda giornata del workshop Refugee Scientists: Transnational Resources (Scienziati rifugiati: una risorsa transnazionale, 13-17 marzo 2017).

Il workshop è organizzato dalla TWAS, l'Accademia mondiale delle scienze che ha sede a Trieste, in collaborazione con l'Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (OGS), la Euro-Mediterranean University (EMUNI) di Pirano in Slovenia, e il contributo della Sida, Agenzia internazionale svedese di cooperazione allo sviluppo.

L'evento si tiene a Trieste dal 13 al 17 marzo, con l'obiettivo di offrire un quadro sul fenomeno degli scienziati in fuga da paesi sconvolti da guerre, e di tracciare l'identikit di queste persone, con i loro problemi e bisogni.

Eqbal Dauqan è una degli scienziati rifugiati che hanno animato la tavola rotonda pensata per raccontare al pubblico le esperenze personali e le difficoltà di chi lascia il proprio paese per sfuggire a guerre e trovare un lavoro. Assieme alla ricercatrice yemenita sono intervenuti anche la siriana Shifa Mathbout, ora in Spagna, e l'afgano Sahil, sfuggito a un'aggressione e oggi in Italia.

Le loro storie sono simili eppure diverse. Tutti fuggono da un paese in cui la guerra è una costante della vita quotidiana; tutti hanno una formazione superiore solida e nel loro paese ricoprivano ruoli di rilevo; tutti vorrebbero tornare a casa, ma temono che questo sogno non si avveri mai.

Eqbal Dauqan si è laureata in biochimica alla Taiz University, in Yemen, nel 2002. Nel 2008 ha conseguito il dottorato in Malesia, ed è la vincitrice di un premio della Fondazione Elsevier che premia giovani ricercatrici da paesi in via di sviluppo. In Yemen era docente universitaria.

"Ho ancora contatti con i miei studenti, ma credo che pochi siano rimasti in Yemen. Non è possibile lavorare lì", spiega Dauqan, che è anche preoccupata per la sorte della sua famiglia.

Tra i problemi incontrati nel lasciare il suo paese, i costi sostenuti per il viaggio che dallo Yemen l'ha portata in Arabia, poi in Giordania e poi finalmente in Malesia. Ma, in Malesia, anche la difficoltà di ottenere frequenti visti che le servono per viaggiare e continuare l'aggiornamento professionale partecipando a congressi e corsi di studio. Nonostante gli ostacoli, la ricercatrice è molto attiva: in Malesia ha appena organizzato un convegno nell'ambito della nutrizione, cui hanno partecipato anche studenti yemeniti.

Sahil ha lasciato l'Afganistan, non certo per scelta. Con un master in economia finanziaria conseguito in Pakistan, all'epoca della fuga si occupava di un programma di miglioramento agrario. "Temevo i gruppi terroristici - dice - perché se non avessi collaborato con loro mi avrebbero ucciso". Nonostante viva ora in un luogo sicuro dove può svolgere attività di ricerca, Sahil porta con sé immagini di violenza e morte. Sopravvissuto lui stesso a un attentato, ha perso un familiare e amici, uccisi da forze ribelli ostili a tutto ciò che è cultura e scienza. "I terroristi minacciano chiunque lavori con colleghi stranieri, organizzazioni non governative o con il governo", spiega. Per i terroristi, chiunque abbia cultura è un nemico.

"Gli scienziati rifugiati hanno bisogno di riconoscimento", osserva. "Spesso soffriamo di un forte complesso di inferiorità, ci sentiamo invisibili e inutili. E anche un po' colpevoli: io sono qui da due anni e in Afganistan non c'è nessuno che supporti la mia famiglia". Ma anche la realtà italiana non è semplice, per Sahil. Come lui stesso confida, non ha più sogni, teme per i familiari e vede il futuro come un enorme punto di domanda.

Shifa Mathbout, meteorologa siriana, lavora a Barcellona. Sta completando il secondo dottorato ed è felicemente integrata nel gruppo di climatologia dell'Università di Barcellona, dove studia i cambiamenti climatici, analizzando in particolare le precipitazioni in oltre 350 punti caldi in Mediterraneo.

Shifa fa parte del programma di protezione internazionale, a causa della situazione politica nel suo paese. "Avere un passaporto siriano mi causa spesso enormi problemi", racconta. "Negli aeroporti devo sottostare a interrogatori di ore per spiegare dove vado e perché. E il fatto stesso di essere siriana spesso mi colloca fra le persone scomode, che molti paesi non vogliono accogliere entro i loro confini".

Shifa è determinata, colta, e decisa a ottenere dei risultati nella sua carriera. Tuttavia non sa che cosa le riserva il futuro: fra pochi mesi finirà il dottorato e non riesce a trovare un lavoro altrove. Nè può tornare in Siria, dove rischierebbe la vita. "Potrò vivere bene anche altrove, ma nel mio cuore non smetterò mai di sentirmi siriana", conclude.

Shifa è un caso abbastanza fortunato. Ma la situazione che riguarda i colleghi siriani è quanto mai nebulosa. Difficile avere numeri accurati sulla crisi umanitaria che ha colpito la Siria: prima del 2011 la popolazione era di 23 milioni di abitanti. Dopo la crisi il numero è sceso a 15 milioni. Di questi siriani in fuga, si calcola che 5 milioni cerchino asilo nel mondo. E secondo stime recenti, il 25% di essi è  formato da accademici, professori, studenti, scienziati. (NdA: sono tutte cifre su cui non esiste certezza).

Nel conflitto alcuni fra i principali bersagli sono proprio gli scienziati sociali e politici, perché portano avanti istanze di democrazia e così facendo automaticamente si oppongono al regime. Molti hanno lasciato il paese perché temevano per sé e per i loro familiari, e anche per trovare un posto ove poter lavorare e non sentirsi inutili.

Il loro riconoscimento, migliori condizioni di vita e di lavoro e la possibilità - seppure remota - di far ritorno in patria, passano attraverso il coinvolgimento e l'intervento di organismi internazionali come la TWAS.

Grazie all'influenza di accademie mondiali, alla presa di coscienza dei governi sull'importanza di non abbandonare a se stessi scienziati di valore in fuga da guerre, e al coinvolgimento anche di organismi privati, sarà possibile - forse tra non molto - cambiare la situazione.

"Le guerre non dureranno per sempre" auspica Mounir Ghribi, responsabile della cooperazione internazionale all'OGS. "Bisogna creare dei nuclei attivi di scienziati influenti, una rete di persone che possa favorire il rientro dei fuggitivi nei rispettivi paesi. Affinché gli scienziati non siano più "risorse transnazionali", ma transizionali", cioè in fuga, ma solo temporaneamente.

 

Cristina Serra